Si narra che l’editore Giulio Einaudi, nel corso di una celebre visita a Mosco, donò un enorme tartufo al leader sovietico Kruscev che lo annusò, lo prese a morsi come una mela e poi si sciacquò la bocca con un sorso di vodka.
La leggenda, mai confermata da nessuno, rimase tale ma contribuì all’epopea del sapore più divisivo di tutti. Per Plinio, infatti, non era che un callo della terra. Per Brillat-Savarin il diamante della cucina. Per Rossini, il “Mozart dei funghi”. Secondo gli antichi saggi, il loro abuso provocava malinconia. Rasputin lo prescriveva allo zar Nicola e allo zarevic Aleksej per curarne l’emofilia. Napoleone e il marchese de Sade ricorrevano al tartufo nei loro tenzoni amorose, considerandolo un afrodisiaco eccezionale. Il suo intenso profumo, ricordava alla peruviana Isabel Allende “quell’odorino di aglio e sudore che ristagna sui vagoni della metropolitana di New York”. Mentre al naso di Pat Conroy ricordava “un’aroma caratteristico come quello della marijuana”. Insomma di tutto e di più.
Ad ogni modo, se volete farvi un’idea sul prezioso tubero siete, ancora una volta, nel posto giusto.
Non lo sapevate? Neanche noi.
Quella dei tartufi nei Monti Dauni è una scoperta tardiva e sottovalutata. Per anni, infatti, la nostra Terra è stata meta di di cercatori e compratori provenienti da ogni parte d’Italia che, prima degli abitanti del posto, avevano capito che i boschi di querce ed aghifoglie dell’appennino rappresentavano la cornice ideale per la loro formazione di tartufi ed, in particolare, del c.d. tartufo nero estivo (Tuber Aestivum Vitt.).
Fortuna che i tempi cambiano e che nuove consapevolezze si affacciano nel nostro territorio. Prova ne è la nascita di diverse aree di raccolta controllata, di alcune regolamentazioni comunali (penalizzate, va detto, dalla miope normativa regionale) e, soprattutto, della prima azienda locale di trasformazione e vendita di tartufi (e funghi). È anche questa una bella storia dei Monti Dauni, fatta da tre ragazzi che hanno deciso di restare o di ritornare (in entrambi i casi ci vuole coraggio) e di investire nel e sul proprio territorio dando vita a Ciocio (da “u ciocije”: un bassorilievo del 1800, presente alle spalle della fontana monumentale di Biccari, che raffigura un volto deforme ed utilizzato nei detti popolari per definire cose e/o persone poco graziose).
A ben vedere la giovane azienda non si sta facendo solo promotrice del gustoso tubero; non si sta limitando a recuperare il prodotto raccolto dai cercatori della zona per trasformarlo in condimenti classici o rivisitazioni più ardite.
No, sta facendo molto di più. Sta restituendo dignità ad un nostro prodotto e tracciando nuove prospettive per tutti noi. Da terra di raccolta (e di conquista), a Terra consapevole e protagonista. Preziosa e sottovalutata proprio come il suo tubero più profumato.